Spendere bene per risparmiare
È stato interessante rileggere uno studio dei ricercatori Robert Kaplan e Derek Haas della Harvard Business University dal titolo “How Not to Cut Health Care Costs” pubblicato a novembre 2014 su Harvard Business Review. Gli autori sostengono che tagliare i costi nell’assistenza sanitaria può portare a risultati opposti a quelli che si tentava di perseguire. Non solo: fa aumentare altri costi e peggiora la qualità
delle prestazioni. Molte azioni di contenimento o di diminuzione della spesa possono perciò risultare controproducenti ed alla fine portano ad un aumento dei costi e c’è un rischio reale che le cure ne risentano, in termini di qualità scadente, se confrontate ai livelli e protocolli di cura condivisi dalla comunità professionale sanitaria.
Gli autori esaminano i cinque errori che maggiormente vengono praticati per il contenimento della spesa sanitaria:
1. Tagli al personale: in tutte le organizzazioni sanitarie il costo del personale rappresenta circa i due terzi delle risorse, per cui la via più breve al risparmio è il blocco delle assunzioni o il turn-over. Altre forme, meno evidenti per il cittadino, sono le riduzioni del personale di back-office e front-desk. Queste scelte portano a dequalificare il personale sanitario altamente specializzato, che deve supportare il sistema
con mansioni non attinenti alle proprie qualifiche, riducento nella qualità e nella quantità il tempo di cura, di assistenza, di relazione, creando frustrazioni e senso di dequalificazione professionale.
2. Disinvestimento nello spazio e nelle attrezzature: gli autori concludono che non si realizza un risparmio con queste politiche restrittive, poiché il costo di “inattività” è talvolta superiore alla pratica dei risparmi
per diminuzione degli investimenti.
3. Stretta sugli appalti e sui prezzi. La fornitura di beni e servizi può incidere tra il 25% e il 35% sul costo totale della prestazione. Anche se gli autori segnalano che un centro unico d’acquisto può essere una buona soluzione per ottenere prezzi favorevoli dai fornitori (pratica ormai consolidata in molte Regioni italiane), va però segnalato che il prezzo minore può non rispondere al meglio in termini di qualità e di soddisfazione dell’assistito e del professionista che usa quel prodotto o quel servizio. Per questo diventa importante individuare i differenti mix produttivi nell’esercizio sanitario, tenendo presente nella valutazione dei prezzi, anche le quantità dei beni e dei servizi richiesti, le modalità, i tempi di pagamento.
4. Massimizzare il numero dei pazienti: il target quantitativo tipico della produttività industriale non può essere applicato tout-court nel campo sanitario. Non si può valutare la produttività di un’equipe sanitaria al solo numero di ingressi, prestazioni, visite, ma si deve ri-parametrare in base alla qualità delle cure prestate ed ai risultati ottenuti. Altro elemento, per gli autori, è quello di prevedere un diverso percorso di cura particolarmente per alcune patologie, quali diabete ed insufficienza cardiaca. Si potrebbe dedicare più tempo e denaro per educare e monitorare i pazienti e la spesa totale si ridurrebbe.
5. Non effettuare benchmark e standardizzazione: l’impossibilità di standardizzare i processi clinici rapportandoli alla spesa, non permette una comparazione del benchmark operativo. Nelle stesse strutture ospedaliere e nella stessa equipe di reparto sono stati individuati, tra singoli operatori, degli scostamenti in termini di costi comparativi e le differenze possono arrivare sino al 30%.
Perchè questa rilettura? Perché invariabilmente ad ogni nuovo anno, tutti gli operatori sanitari sentono il solito ritornello sulla necessità di far quadrare i bilanci regionali della sanità, di ridurre i costi e di abbattere gli sprechi. Che poi si realizza in provvedimenti semplicistici, mai realmente coraggiosi, certamente non risolutivi. È evidente che nell’immediato alcune scelte (riduzione del personale, blocco
del turn-over, acquisti al massimo ribasso, ecc.) possono ridurre la spesa, ma i vantaggi ottenuti tendono a decrescere o annullarsi nel tempo, producendo squilibri e difficoltà di organizzazione nel sistema stesso. Se riduciamo il numero degli infermieri, certamente si risparmia ma la mortalità aumenta. Una letteratura ormai consolidata in merito, dimostra il rapporto diretto tra quantità di infermieri e decessi.
Se ci si occupa solo della prestazione e non dell’esito, l’utente chiederà altre prestazioni integrative con sovraccarico del sistema. E potremmo continuare per ore...
Ma un secondo motivo per riproporre questa lettura è che alcune delle proposte che gli autori basano sulle ricerche economiche, confermano quanto i professonisti sanitari e gli infermieri in primis, propongono e caldeggiano da tempo: analizzare i processi e valutare quale figura professionale risponde meglio al bisogno della persona, rivedere i percorsi clinici che spesso richiedono meno diagnostica
e terapia ma più assistenza infermieristica integrata da un supporto di figure tecniche, ma anche intervenire con una reale competenza di valutazione sull’acquisizione di quei beni e servizi che ancor troppo spesso sono decisi da chi non li utilizza e per il quale il basso costo è l’unico elemento decisorio. Gli infermieri hanno la competenza e l’esperienza gestionale per entrare a pieno titolo in questi processi e devono essere coinvolti nelle decisioni su come risparmiare o meglio come spendere. Certamente il mondo sanitario deve trovare un equilibrio economico che minimizzi le risorse impiegate e massimizzi i
risultati in termini di quantità e qualità dei servizi erogati. Ma l’attività sanitaria ha delle particolarità specifiche: l’immaterialità, la non trasferibilità nello spazio e nel tempo del servizio prodotto, l’affezione o la sfiducia del paziente. Tutti elementi che fanno la qualità di un servizio e, se non possiamo dire quanto costa la qualità, si sa per certo che la non qualità invece ha un costo anche economico. Gli infermieri devono sempre più considerare gli effetti qualitativi che derivano dalle decisioni economiche: sappiamo abbastanza sui numeri grezzi (spese, numero di prestazioni, di ricoveri, ecc.) ma troppo poco sull’effettiva
ricaduta in termini di miglioramento/peggioramento del livello di salute, anche perché è più facile misurare il dato quantitativo che quello qualitativo. Responsabilità degli infermieri è misurare la realtà della qualità dell’assistenza e da questo trarre dei criteri metodologici per l’allocazione delle risorse da proporre, di vigilare sulle priorità da rispettare, di concorrere all’uso appropriato delle risorse umane e strumentali che oggigiorno è un imperativo etico prima ancora che normativo o contrattuale. Infine la riflessione ultima, ma più importante, è che se si continua unicamente con il gioco al ribasso e sul taglio generalizzato dei costi, il nostro SSN potrebbe non sopravvivere a questo disarmo e, da sistema universalistico e solidaristico, orientarsi in modo ancor maggiore alla privatizzazione, alla logica del solo valore
economico, e quindi ad un indebolimento della sua etica di servizio pubblico. La partita è importante e gli infermieri di Area Critica non saranno solo spettatori.